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il pulpito
Il papa e il cuore nero dell\'est di Alberto Melloni

 Dopo averne visto le conseguenze su migliaia di persone in fuga, gli europei vedono il fumo nero
della guerra da vicino. È ormai ad una spanna d’acqua, di là del mare dei morti cantato da Virgilio e
da Gianfranco Rosi. 
S’affaccia ad una spanna di terra da noi, in quei Paesi dell’Europa orientale in
cui ribollono gli spiriti animali del nazionalismo, dell’antisemitismo e dell’autoritarismo i cui esiti
fatali stanno scritti in tutti i sussidiari. Non solo in Ucraina, ma in Polonia, Ungheria, Slovacchia e
oltre. 
 
Le nazioni “cattoliche” che per secoli il papato credeva diventassero un cuscinetto fra
ortodossie e protestantesimi, i Paesi che Wojtyla sognava fossero modelli di nuovi regimi di
cristianità, le chiese che hanno conservato la fede fino al martirio nella cattività sovietica, sono oggi
invece il punto di approdo della spirale soffocante della guerra. 
 
Ed interpellano sia gli europei recalcitranti alla long-term vision, 
sia il cristianesimo sordo alla conversione, sia l’unico leader globale 
che viva in questo continente: un immigrato argentino che si fa chiamare Francesco.
 
La spirale si disegna chiara sulle carte. Dal corso del Niger una striscia di guerre civili e/o di
religione chiamate eufemisticamente “terrorismo” generano statualità inedite, travolge gli equilibri
fra musulmani di diversa confessione, devasta le chiese siriache che i cristiani latini avrebbero
sterminato secoli fa, profana i luoghi dello spirito. 
 
Le rotte desertiche dei mistici fra l’Africa e il Mediterraneo 
sono vie di morte a doppio senso. Il Sinai dove fu detto “non uccidere” vede azioni
feroci e innominabili. 
 
Nel cielo d’Arabia non ci sono sapienti a leggere le stelle, ma vittime che
scrutano la scia dei caccia. Attorno e dentro la terra dove scorre latte e miele ci sono muri e coltelli
a posporre la pace. 
 
Il concilio pan-ortodosso che il patriarca Bartholomeos ha avuto la grazia e la
fede di convocare non può riunirsi a Costantinopoli, ma deve andare a Creta per le tensioni che
richiamano la storia delle relazioni fra l’ex sultano e l’ex zar. Le piste d’Abramo, padre di chi va e
di chi crede al cammino, sono percorse da Suv carichi di trafficanti e assassini. La Siria che diede ai
cristiani il nome di “quelli della Via” è liquefatta.
 
Ma la nube cupa della guerra non si ferma lì. Risale dal Mar Nero verso l’oriente cristiano; passa
sui confini della “unione” di Brest e dell’Ucraina post-sovietica; s’incunea nel cuore di quella
cintura “cattolica”, nell’Ungheria di Viktor Orbán e nei movimenti della Polonia di Beata Szydlo, e
passa dai gruppi neonazisti in Slovacchia, si frantuma nella xenofobia urbana tedesca, e ancora oltre
verso ovest. 
 
E sa che, se non lo farà Francesco, non sarà denunciata né da élite impari a compiti ben
più semplici né da cristiani attratti dal potere. Dopo la generazione di Schumann, Adenauer e De
Gasperi, che parlavano in tedesco e pensavano in cattolico, dopo quella di Delors, Kohl e Prodi, che
parlavano in europeo e pensavano in ecumenico, la generazione nuova degli europeisti — al netto
del consenso sul piano Renzi spiegato ieri da Scalfari — non c’è, e Mario Draghi parla e pensa nella
lingua della solitudine.
 
Davanti a questo paesaggio sta Francesco: un anziano latino americano che con tre pennellate —

la cultura dello scarto, 

la globalizzazione dell’indifferenza, 

la guerra a capitoli — 

ha denudato l’impotenza culturale di un’Europa che 
non sa leggere la realtà in modo convincente, unificante, pacificante. 
E che dunque è condannata alla diffidenza, alla disunione e in prospettiva alla guerra.
 
Cittadino del sud del mondo, Bergoglio guarda all’Europa con distacco; la sua formidabile
segreteria di Stato inanella successi sbalorditivi, ma su tutt’altri quadranti; l’episcopato europeo è
totalmente inerte davanti ai compiti che la storia gli assegna. 
 
Ma il Papa, i suoi diplomatici e i vescovi non potranno 
non misurarsi col “cuore nero” dell’Europa che si manifesta ad est.
 
Francesco in ogni caso dovrà farlo nel viaggio in Polonia di questa estate per la giornata della
gioventù, che non può essere solo un trionfo giubilare celebrato a un passo dai cancelli di
Auschwitz-Birkenau, ma un incontro con la generazione che se perde l’Europa ritroverà la guerra.
 
Forse il Papa ha già incominciato a prendere posizione nell’ormai famoso dictum su Trump. 
 
In una frase secca — «chi pensa a costruire muri non è cristiano » — Francesco ha preso le distanze non
solo da un provocatore reazionario, ma anche da tutta quella politica che in Europa tenta di catturare
“voti facili” dividendo fra chi ha paura e chi fa paura o negando valor al sapere che è il diaframma
necessario fra la paura e le decisioni.
 
Presi in una accelerazione ecumenica improvvisa — fra il giubileo del Vaticano II, il concilio
panortodosso, il centenario della Riforma — i cristiani d’Europa possono fornire a questo
continente malato solo la loro conversione e la loro comunione: non per conquistare qualcosa
restando identici, ma per non perdere l’anima. Un continente secolarizzato e pensante ne
coglierebbe il valore, ne spererebbe l’adempiersi: ma può darsi che questo continente sia solo
secolarizzato, e dunque indifferente a quel “cuore nero” che è l’antipodo di Ventotene.
 
 
rassegna stampa - la Repubblica  del 29 febbraio 2016


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