AUGURI NAPOLI, CAPOdanno zero!

Dicembre 31, 2009 by admin · Comment
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L’ultimo giro di valzer

rassegna stampa
di Mimmo Carratelli - fonte La Repubblica Napoli -

In Piazza Plebiscito, l’ultimo giro di ballo del Governatore.
Ultimo capodanno dell’uomo sodo al comando da 16 anni. L’Uomo Regno. Musiche e musicanti. Sonetto commemorativo del Carducci: “L’Arbore cui tendevi la pargoletta mano, il pugliese che canta napoletano, e tu, governatore, che fai il baciamano”. Cascetta: “E’ uno di quei giorni che ti prende la malinconia”.
Rosetta: “Vita da vita mia te sto perdenno”.

L’opposizione bieca: “Chi si’? Tu si’ ‘a canaglia ca pure quanno more si sente vincitore”.

Canta Antonio: “Santa Lucia s’alluntana, quanta malinconia, partono ‘e primarie pe’ tramente, cantano a buordo ed è la nuova classe dirigente”.
Coro: “Antò e mo che faje, te giri ‘o munno sano, vai a cerca’ fortuna, ma quanno sponta ‘a luna te miette a chiagnere ca vo’ turnà”.
Sul blog del Governatore, peste e corna per coloro che l’hanno abbandonato. Spero, promitto e Giuda. Addio, mio bello, addio, l’Armato se ne va. Massimo Paolucci: e se non partissi anch’io sarebbe una viltà. Cuori ingrati.
Non c’è più niente da fare, è stato bello sognare, la Coppa America a Bagnoli, il Rinascimento, i vari e pindarici voli. Un uomo, un mito nella piaga (di Napoli). In piazza, l’addio musicale.

E dopo mezzanotte si spengono i fanali dell’arte concettuale, e solo se ne va un uomo in flop.
Ha un Veltroni per capello, e D’Alema per ombrello, tutto il gelo di Fassino contenuto in un secchiello, Franceschini ciento mosse (pur’’e pulice ténono ‘a tosse), Marone sempre quello, fedelissimo morello, la Regione nell’occhiello, Geremicca per ripicca, Nicolais che si ficca, Isaia Sales che si picca di giocare a Pietro Micca, e Barbieri tra i ribelli, l’Incostante una di quelle che son scese da cavallo, con un rosso Cabernet vi saluta il vicerè. E’ la fine di un’epoca.
Cameriere, champagne.

Il futuro frugale che ci aspetta

Dicembre 29, 2009 by admin · Comment
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rassegna stampa
di MARIO DEAGLIO

I sistemi economici non muoiono per malattie economiche, le Borse non possono continuare a cadere per sempre: dopo un certo periodo, la caduta produttiva si arresta e qualche forma di crescita riprende a seguito della pressione delle esigenze vitali della popolazione. Dopo le guerre e le più dure crisi finanziarie, i peggiori crolli di produzione e Borse sono stati nell’ordine del 40-50 per cento. Nella crisi attuale le autorità monetarie e di governo hanno fatto tesoro delle esperienze degli Anni Trenta e sono riuscite, «pompando» immani risorse nel sistema finanziario, ad arrestare, nella maggior parte dei Paesi avanzati, la contrazione del prodotto interno al 5-6 per cento e quella della produzione industriale al 15-25 per cento. Gli indici di Borsa, precipitati per un brevissimo periodo circa un anno fa, sono oggi di circa il 20-25 per cento sotto i massimi storici e continuano timidamente a risalire.

Tutto ciò può sembrare un discorso consolatorio di fine anno sulla bravura di chi governa le principali economie mondiali, e invece proprio non lo è. Non c’è, infatti, molta relazione tra la bravura necessaria per tenere in vita il malato e quella per farlo guarire. Un medico bravo nel primo caso non è necessariamente bravo nel secondo e qualche segno di scarsa abilità nel gestire un rilancio credibile a livello mondiale sta cominciando ad affiorare.

I più importanti di questi segni sono la scarsa attenzione, anche politica, al peso che potrà avere la disoccupazione e, per contro, l’eccessiva attenzione statistica al momento in cui la ripresa comincia a manifestarsi e la trascuratezza per le garanzie effettive che uno-due trimestri di ripresa molto pallida possano consolidarsi. Si è largamente sperato che, come altre volte in passato, una volta ripartita, la produzione rimbalzasse rapidamente all’insù come un elastico, secondo l’immagine usata da Friedman. Queste speranze per ora sono andate deluse.

Almeno tre alternative oggi trascurate (apparentemente pessimistiche ma purtroppo realistiche) per l’evoluzione del prossimo anno vanno esaminate con serietà: la prima è che l’economia globale possa continuare a vegetare invece di tornare a crescere, portandosi dietro un numero crescente di affamati, oggi già più di un miliardo; la seconda è che le sue prospettive di crescita possano risultare stabilmente modificate in peggio dopo un ingannevole guizzo di ripresa; la terza è che la massa di risorse finanziarie messe in circolazione possa trasformarsi in altrettanto «veleno» e stimolare una grave inflazione planetaria. E ce n’è abbastanza per essere molto cauti. Per questo, in un finale d’anno ancora segnato dall’incertezza nonostante i progressi compiuti, oltre alla cautela è necessario un allargamento della visuale rappresentata dagli indici di Borsa di breve periodo. L’economista oggi non può chiudersi nel suo ufficio a macinare su un computer numeri - spesso di dubbia validità - né tanto meno lo può fare l’analista finanziario. Occorre invece ampliare il campo di osservazione estendendolo ai segnali extra-economici che possono interferire con l’economia.

Nel cercare di fare previsioni, non possiamo chiudere gli occhi di fronte allo spettacolo di un’amplissima area, che va dall’Afghanistan e dal Pakistan fino alla Somalia, dove la globalizzazione è sulla difensiva e non sta certo accumulando vittorie né economiche né militari; il che proietta un’ombra sulla stabilità dei vitali rifornimenti di petrolio provenienti da quell’area e sul prezzo delle altre materie prime. E nascondiamo la testa nella sabbia se dimentichiamo che, in questo inverno duro e anomalo, i prezzi di molte materie prime agricole hanno già ripreso a salire fortemente: tè, cacao e zucchero fanno registrare record storici e tale tendenza potrebbe diventare generale sotto la spinta della crescente domanda dei Paesi emergenti e delle difficoltà, legate anche all’instabilità climatica, di espandere in maniera sensibile l’offerta.

Un altro potente segnale di instabilità deriva dall’attentato a un aereo americano nel giorno di Natale. Per quanto fisicamente fallito, ha raggiunto l’obiettivo di far dirottare immediatamente ulteriori risorse dalla produzione alla sicurezza. Rispetto a una settimana fa, oggi viaggiare in aereo costa di più in termini di tempo (in America per ottemperare alle nuove misure l’aspirante passeggero deve arrivare all’aeroporto quattro ore prima della partenza) e sicuramente tra poche settimane l’aumento nei costi di prevenzione degli attentati si ripercuoterà sul prezzo dei biglietti. Si noti bene che accettiamo non solo di pagare di più ma anche di essere meno liberi: chi vuol volare in America deve acconsentire a farsi fiutare dai cani, essere disposto a togliersi le scarpe e quant’altro e i cittadini americani hanno già accettato che la loro corrispondenza elettronica possa essere legalmente letta dai servizi di sicurezza.

Tutto ciò deve indurre a un atteggiamento più sobrio e più responsabile al posto di una fiducia quasi caricaturale in una ripresa indolore e con pochi problemi che ci riporti al precedente Regno di Bengodi. E’ degno di nota che alcuni operatori finanziari hanno prefigurato un «futuro frugale» (Merrill Lynch) e una «nuova normalità» (la Pimco, società di gestione di fondi), ossia un assetto sociale che sostanzialmente non può più permettersi le sicurezze e le opulenze di qualche anno fa. The Economist e altri periodici di grande influenza discutono in termini non certo trionfalistici su ciò che può avvenire dopo la tempesta. Tutto ciò trova un contrappunto in numerose, autorevoli voci non economiche che parlano di «sobrietà» necessaria nei Paesi ricchi e non solo in campo economico; in questo contesto occorre segnalare, tra le altre, le parole del Presidente della Repubblica e quelle del Pontefice. Insomma, non se ne può proprio più dell’attenzione spasmodica a listini azionari che rappresentano sempre meno la realtà dell’economia e a dati statistici destinati a essere corretti, in genere in peggio, nel giro di poche settimane. Si può però ragionevolmente sperare che il Nuovo Anno porti a nuove cautele e più ampi orizzonti, a nuovi progetti di crescita mondiale da attuarsi in tempi medio-lunghi, meno squilibrati di quelli di un passato recente.

BUON NATALE : Infanzia, senza fondi 3 mila bimbi a rischio (PIRILLO,presidente uneba:napoli ,anno zero, stiamo aspettando ancora)

Dicembre 19, 2009 by admin · Comment
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rassegna stampa
Repubblica — 19 novembre 2009 pagina 7 sezione: NAPOLI

TREMILA bambini napoletani finiranno in mezzo alla strada. Lo hanno denunciato ieri gli operatori sociali dell’ Uneba alla Conferenza nazionale sull’ infanzia e l’ adolescenza, in programma fino a domani alla Stazione marittima.
Settanta istituti socio-educativi, incalzati dalle banche, chiedono al Comune di Napoli di restituire i 20 milioni di euro anticipati per assistere i ragazzi a rischio della città.
«Da 20 mesi non riceviamo le rette comunali - ha dichiarato Lucio Pirillo, presidente dell’ Uneba Campania - una lenta agonia distrugge i servizi per i minori».
Ospiti dei centri, infatti, sono ragazzi della Sanità e Scampia, con alle spalle disagio economico e marginalità sociale.
La soluzione però non è arrivata: il sindaco Rosa Russo Iervolino ha dichiarato che «il Comune non ha una lira, ma vanta un credito di quasi cento milioni di euro dal governo», polemizzando con l’ onorevole Alessandra Mussolini, presidente della Commissione infanzia che aveva chiesto un impegno concreto per salvare le associazioni.
Le critiche non sono scaturite solo dalla mancanza di fondi: Unicef e associazioni come “L’ albero della vita” e “Telefono azzurro” hanno accusato il governo di sottovalutare i problemi sociali. «È una conferenza inutile - ha dichiarato Vincenzo Spadafora presidente dell’ Unicef - attendiamo l’ approvazione di un piano nazionale per l’ infanzia e la nomina di un garante, come promesso giusto un anno fa alla Camera dall’ Esecutivo. Finora non è stato fatto nulla». Una bordata poi anche sull’ assenza dei ministri alla conferenza. Critica ingenerosa, ha replicato da Roma Mara Carfagna, responsabile per le Pari opportunità: «Oggi (ieri, ndr) c’ è un voto importante alla Camera. Critica ingenerosa anche perché con il presidente dell’ Unicef ho collaborato moltissimo».
ANNA LAURA DE ROSA

Comunità senza soldi, mille bambini a rischio

Dicembre 18, 2009 by admin · Comment
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rassegna stampa

venerdì, dicembre 18, 2009
(di cri. z. da la Repubblica Napoli)

Mille bambini, ragazzini, adolescenti vittime di abusi o strappati alla criminalità sono in attesa. In attesa di sapere qual è il loro futuro: continuare il percorso cominciato in comunità o ritornare per strada. Nello scontro sui fondi tra Regione e Comune, ci sono loro, i più deboli.
Sono un centinaio le strutture residenziali che si occupano di minori a rischio chiusura su 370 che operano in città e provincia. Il caso limite è quello della Karis, casa-famiglia da zero a sei anni di Pianura, che è stata inaugurata due anni fa e non ha mai recepito soldi, tranne che per il primo bimestre. Nella piccola casa famiglia, c´è una coppia, che svolge funzioni genitoriali per cinque bambini, con l´aiuto di due educatori, un assistente sociale e uno psicologo. «Qui i bambini vivono come in una famiglia e la chiusura della casa significherebbe togliere loro, per la seconda volta, l´unico punto di riferimento che hanno. Si tratta di piccolissimi sottratti a genitori violenti, tossicodipendenti o autori di altre gravi forme di abuso», dice Gianni Minucci, vicepresidente del Sam (federazione Servizi residenziali di accoglienza minori).
Da due anni, casa Karis sopravvive solo grazie all´impegno personale della coppia e degli operatori. Ma ora, senza finanziamenti, ha annunciato la chiusura per il 31 dicembre.
Stessa situazione ad Acerra, dove nella comunità gestita da Rosa Coppola, sono già partite le lettere per i dipendenti. «Siamo come una famiglia e io ho dovuto avvisarli – spiega la titolare – Il Comune non ci paga da 18 mesi e le banche ormai non ci fanno più credito, anzi quando presentiamo le fatture del Comune di Napoli ci dicono che è peggio, perché il bilancio comunale è così disastroso che nessuno ci pagherà mai». È disperata Rosa Coppola: «Sono preoccupata per gli operatori che da anni lavorano con noi. Sono tutti ragazzi laureati e specializzati», ma il pensiero va soprattutto ai bambini dai 7 ai 14 anni che sono ospiti nella comunità. «Siamo ad Acerra, ma abbiamo tanti bimbi di Napoli, Secondigliano, Bagnoli. Con ciascuno di loro lavoriamo per reintegrarli nella vita normale. C´è una ragazzina romena, ospite da noi da quattro anni, che a scuola è diventata bravissima. Ora l´idea di perderli, di abbandonarli è una ferita al cuore. Non sono dispiaciuta solo per il lavoro che si butta via, ma perché ho paura di cosa succederà a questi piccoli uomini e piccole donne del nostro domani».
C´è malinconia e rabbia, tra chi lavora in prima linea tra i minori a rischio. «Viviamo nel paradosso – cerca di spiegare Minucci – Quando dobbiamo incassare le fatture il Comune ci chiede contestualmente la presentazione dei documenti per la regolarità contributiva Inps e Inail. Io cioè mi devo impegnare ogni mese a versare i contributi per i miei dipendenti, ma il Comune non mi paga da 18 mesi. In molti non hanno più i soldi neanche per assicurare il pagamento dei contributi, questo l´ho spiegato all´assessore Giulio Riccio».
È un coro. «Il Comune non ci paga da oltre un anno», conferma Silvia Ricciardi che gestisce le Comunità alloggio Jonathan, Colmena e Oliver, per minori tra 14- 21 anni e Casa di Luca, che accoglie bimbi tra i 6-12 anni. «I fondi del Comune non ci servono solo per pagare vitto, alloggio e gli operatori – spiega Silvia Ricciardi – questi bambini intraprendono un programma educativo completo, vanno a scuola, in palestra, seguono corsi danza e di calcetto. E tutto questo ha un costo». La comunità Jonathan e le altre riescono a sopravvivere grazie ai privati: «Noi riusciamo ad andare avanti, perché abbiamo un contratto di lavoro per i ragazzi più grandi con la Indesit e il presidente della società, Vittorio Merloni, ha personalmente fatto da garante per noi con una banca di Fabriano, che ci anticipa i soldi a tassi di interesse molto bassi. Senza questa intermediazione Jonathan e le altre case famiglia sarebbero già alla deriva».

Una sinistra ancora in parte subalterna all’uso della violenza

Dicembre 17, 2009 by admin · Comment
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rassegna stampa
da Il Riformista del 16 dicembre 2009
di Ritanna Armeni

Si può essere di sinistra e avere un moto di pietà, di fronte al volto insanguinato di un avversario? Si può essere fieramente e radicalmente avversi a un progetto politico e rimanere sgomenti se chi lo incarna è fatto oggetto di violenza? E, infine, si può continuare a criticare con tutta l’energia possibile una linea politica, una strategia e una proposta e poi essere solidale con chi la persegue se questi si trova in un momento di fragilità?

Sono quasi sicura che chiunque a sinistra, di fronte a queste domande risponderebbe affermativamente. Sono anche preoccupata per il fatto che di fronte a un fatto concreto, il ferimento di Berlusconi molti, non pochi, hanno mostrato un atteggiamento diverso. Di che tipo? Le reazioni a caldo sono state varie e a 48 ore dall’ incidente di piazza Duomo mi pare di poterne riportare almeno quattro. La prima la posso definire di pensosa preoccupazione. Non per il ferito, ma per la situazione politica che il ferimento di Berlusconi determinava: la possibilità di un ricompattamento della maggioranza, un indebolimento dell’opposizione, un rafforzamento delle posizioni del premier. Tutte preoccupazioni naturali, ovviamente, e sulle quali ci si interrogherà nei prossimi giorni, ma sorprendentemente prive di ogni sgomento e di ogni emozione a qualche minuto dall’aggressione. La seconda possiamo definirla della relativizzazione o minimizzazione e se ne è fatta infelicemente portavoce una donna solitamente intelligente e appassionata come Rosy Bindi. Il premier - si è detto - non faccia la vittima, sono cose che capitano a un uomo pubblico che fa un bagno di folla. E poi - sempre nella linea della minimizzazione - si è trattato di un pazzo, un isolato che con lo scontro politico e il clima del Paese non c’entra nulla. Anche in questo caso, curiosamente, gli effetti pesanti, non simbolici, dell’aggressione: una ferita al volto, due denti spezzati e un naso fratturato, scompaiono.

Viene un certo imbarazzo a definire il terzo atteggiamento che potremmo definire “complottista”. In poche parole si avanza il sospetto che qualcuno abbia organizzato il tutto per creare solidarietà attorno a Berlusconi, per ricompattare il suo popolo e la sua maggioranza. C’è poi una quarta reazione che non si è ancora pienamente espressa, ma che nei prossimi giorni sicuramente si manifesterà sui giornali e nei talk show e che possiamo definire di “vittimismo”. Essa è sintetizzabile così: ecco qui, ora noi dell’opposizione non potremo più parlare e criticare con forza, con durezza, perché il premier ha passato tre notti in un ospedale. Ancora una volta la libertà di critica e di espressione viene messa a tacere. Non so francamente quanto questi atteggiamenti e queste reazioni corrispondano a un reale sentire e quanto invece siano, mostrati ed esibiti per esprimere un’irriducibilità al nemico. Ma è poco importante. È importante, invece che essi siano stati assunti, che queste siano le frasi usate nelle conversazioni, nei commenti, nelle battute di una parte. E che, contemporaneamente molti a sinistra abbiano negato ogni accenno allo sgomento, alla solidarietà, alla pietà o, semplicemente, all’emozione.
Perché in parti non marginali del popolo e degli intellettuali della sinistra sono presenti gli atteggiamenti che ho appena descritto? So bene che quasi sicuramente, queste forme di reazione si potrebbero constatare in una situazione simile anche a destra ma questo non è un buon motivo per non interrogarsi. Buona parte degli osservatori politici ritiene che essi siano propri di una sinistra che fa riferimento a un giustizialismo senza se e senza ma, a una politica fondata sulla demonizzazione dell’avversario e sulla personalizzazione che peraltro riconosce dall’altra parte, a destra, protagonisti altrettanto radicalizzati. I giornali di destra poi vanno oltre e puntano il dito, fanno i nomi dei responsabili: Di Pietro, Travaglio, Santoro, Il Fatto, Repubblica.

Non mi sento di essere d’accordo. Questa matrice culturale c’è sicuramente, ma le origini sono più lontane, le radici più profonde, la storia più antica. La radice forte è la subalternità nei confronti della violenza. Di fronte a un atto violento perpetrato nei confronti del nemico non è ancora maturato in questi decenni - che pure di violenza ne hanno vista tanta - un atteggiamento di reale, completo, indiscusso ripudio. All’opposto la violenza nei confronti dell’avversario politico, trasformato in nemico (oggi violenza verbale soprattutto e per fortuna) è il metro con il quale si pensa di misurare la volontà e la capacità di opposizione. La subalternità nei confronti della violenza è dannosa quanto la violenza stessa. Negli anni 70 e 80 i violenti veri e propri erano pochi, ma erano molti, moltissimi coloro che mantenevano dentro e fuori i grandi partiti della sinistra un atteggiamento subalterno, di tolleranza, di comprensione. Essa era qualcosa di cui magari non si era capaci, ma alla quale non ci si opponeva chiaramente e radicalmente perché indicava tutto sommato una passione, una dedizione alla causa. Essa, ad esempio, e non l’intelligenza delle forme di lotta è stata ritenuta per decenni la prova della capacità e della volontà di opporsi all’avversario di classe. Le lotte di liberazione nazionale e la Resistenza erano ancora vicine.

Ancora oggi evidentemente per molti è così. Le reazioni e gli atteggiamenti nei confronti del premier ferito, l’assenza o addirittura la vergogna di fronte ai sentimenti di pietà e di solidarietà umana non hanno altra spiegazione. Di recente lo storico Giovanni De Luna nel libro “Il corpo del nemico ucciso” spiega come l’atteggiamento nei confronti del corpo del nemico è anche un documento straordinario per conoscere l’identità del carnefice. Mi è tornato in mente questo concetto proprio in questi giorni. E si parva licet componere magnis (De Luna parla dei grandi conflitti mondiali e in questo caso parliamo di un episodio incomparabilmente più limitato) mi sono chiesta: che sinistra è quella che per esistere pensa di dover eliminare la pietà nei confronti del corpo ferito di un suo avversario?
E ho tirato un sospiro di sollievo quando ho visto Pierluigi Bersani che si recava al San Raffaele in visita a Silvio Berlusconi.

I dubbi del palazzo “dovevamo fermarci”

Dicembre 14, 2009 by admin · Comment
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rassegna stampa

da Corriere della Sera del 14 dicembre 2009

di Francesco Verderami

Cosa sarebbe accaduto se quel colpo fosse arrivato «un centimetro più sopra»? È la domanda che ieri sera i figli del premier si ponevano lasciando l’ospedale. Ed è la politica che dovrà dare una risposta, perché da tempo il Palazzo ha perso il senso della misura, ogni dichiarazione ormai è sempre «un centimetro più sopra», ben oltre il lecito del confronto democratico, con un accanimento senza precedenti. In una sera di dicembre il gesto di uno squilibrato ha fatto rinsavire i protagonisti dello scontro. D’un tratto non si è parlato più del conflitto istituzionale tra il capo dello Stato e il capo del governo, «Gianfranco» si è affrettato a sapere come stava «Silvio», Casini ha smesso di parlare dell’union sacrée anti-berlusconiana al pari di Bersani, l’Anm ha espresso solidarietà al presidente del Consiglio. Colto in contropiede, il mondo della politica (ma anche quello della giustizia) si è reso conto di essere andato «un centimetro più sopra». Ieri sera, dopo il ferimento del premier, il leader dell’Udc ha detto che se n’era già accorto il giorno prima, sempre a Milano, a pochi passi dal Duomo, in piazza Fontana, dove si era manifestata «una violenza verbale» che non aveva risparmiato neppure i familiari delle vittime della strage. La domanda è perché il Palazzo non si è posto prima la domanda, continuando invece a guerreggiare all’ombra della più grave crisi economica della storia, dimenticandosi peraltro che c’è una piazza senza più rappresentanza in Parlamento. E non è vero che c’è un’analogia tra l’aggressione subita nel 2004 a Roma da Berlusconi, e quella di cui è stato vittima ieri a Milano. Il «cavalletto» fu un gesto certo clamoroso, che tuttavia maturò per caso. Stavolta il gesto è meditato, per quanto covato da una mente instabile. Ecco il motivo per cui il colpo inferto al Cavaliere è stato avvertito sulla pelle da (quasi) tutti gli attori della politica, e (quasi) tutti infatti si sono chiesti - al pari dei figli del premier - cosa sarebbe accaduto se fosse giunto «un centimetro più sopra». Perché da molto tempo nel Palazzo continuavano a scontrarsi sostenendo di parlare dell’ «avversario», mentre il Paese avvertiva che stavano parlando del «nemico». Ieri l’emblema della divisione, Berlusconi, si è mostrato insanguinato. E chissà se il suo volto sfregiato servirà come sacrificio sull’altare di una pacificazione politica, o se - finito il rituale della solidarietà - si tornerà allo scontro «un centimetro più sopra».

 

Processo Bassolino: motori di lavatrici negli impianti di cdr. Il rischio prescrizione avanza.

Dicembre 12, 2009 by admin · Comment
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UDIENZA DEL 9 DICEMBRE 2009

Testo del video intervento
Prosegue la sfilata dei testimoni davanti alla quinta sezione del Tribunale di Napoli, presieduta da Maria Adele Scaramella, che giudica 28 imputati accusati di truffa, falso, frode in pubbliche forniture, abuso d’ufficio e interruzione di pubblico servizio in merito alla gestione dell’emergenza rifiuti nella Regione Campania.

Tra gli imputati anche il Governatore del Partito Democratico, Antonio Bassolino, che tra il 2000 ed il 2004, nominato dall’esecutivo, ha guidato la struttura del commissariato per l’emergenza rifiuti. Una struttura burocratica che costava diversi milioni di euro all’anno solo per gli stipendi di commissario e sub commissari e che secondo le accuse veniva gestita perseguendo un disegno criminale volto a non superare l’emergenza.

Secondo i pubblici ministeri il commissario di Governo non poteva non essere a conoscenza della condotta dei gestori degli impianti, le imprese consorziate IMPREGILO-FIBE-FISIA, che sovraccaricava gli impianti, disincentivava la raccolta differenziata provocando uno svernamento in discarica di oltre il 49% dei rifiuti anziché del 15% stabilito dal piano per l’emergenza.

Oggi è toccato rispondere alle domande, del PM Paolo Sirleo e delle difese, a Carmine Urciuoli, impiegato di DEVIZIA Transfer spa, che si occupava del trasporto dei rifiuti dagli impianti di produzione a quelli di smaltimento per conto di FIBE e delle altre società che gestivano gli impianti per la produzione di CDR.

Poi Fabio Nunziante, capoturno dell’impianto di Casalduni, che come gli altri colleghi alle precedenti udienze, ha confermato che spesso, su ordine scritto del commissario di governo, gli impianti caricavano anche il doppio del target di rifiuti stabilito. Anche a Casalduni si avviò la costruzione di una struttura supplementare per additivare il cdr con rifiuti speciali.

Cosa è cambiato oggi con la nuova gestione- domanda dell’avvocato Ilaria Criscuolo - ? “Nulla. Hanno cambiato il nome della FOS, frazione organica stabilizzata, in FUT, frazione umida tritovagliata” - ha risposto Nunziante.

A concludere la testimonianza di Maurizio Avallone, un passato in Fintecna, che negli anni oggetto del processo dirigeva il SEAM (servizio di emergenza ambientale) dell’ARPA Campania occupandosi di verificare la condizione degli impianti. Esisteva un’apposita convenzione con il commissario di governo, ma non gli vennero mai forniti gli strumenti per compiere analisi autonome dovendosi limitare ad esaminare i dati analitici forniti dai gestori degli impianti.

Ciò non gli impedì, racconta, di accertare “che gli impianti erano sovraccarichi il che impediva le manutenzioni ordinarie” e durante le riunioni periodiche poteva solo limitarsi a segnalare le anomalie a chi di competenza. Osservazioni comunicate anche ai subcommissari Acampora e Vanoli. Senza risultato.

“Ho visto con i miei occhi, nelle fosse dei rifiuti, perfino motori di lavatrici o frigoriferi interi”. E nel corso di alcune riunioni del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, quando l’emergenza non era del tutto esplosa sui media l’ordine fu preciso “teniamo bassi i toni”.

Il processo sfida i tempi della prescrizione che si avvicina inesorabile e dovrebbe quindi ricevere una spinta maggiore. Mancano oltre 300 testimoni e si procede ad un ritmo forse troppo basso.

Prima di natale è prevista ancora un’udienza. E da gennaio a giugno le udienze proseguiranno quasi tutti i mercoledì. Ma a Roma comincia il processo Cirio, molte difese sono impegnate a difendere i presunti bancarottieri ed il calendario di uno dei due processi dovrà risentirne. E un’idea su quale sarà è facile farsela.

Postato da Antonio Di Pietro in Processo Bassolino


Napoli Anno Zero ? «Lezioni di storia» ultimo atto -Le occasioni perdute del Novecento

Dicembre 10, 2009 by admin · Comment
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rassegna stampa -fonte corriere del mezzogiorno-
all’auditorium della rai
Piero Craveri ha raccontato il Mezzogiorno dal ‘45 a oggi

NAPOLI - «La storia di Napoli dal 1945 in poi è storia di occasioni perdute». Piero Cra­veri inizia così la sua relazione, la decima e ultima del ciclo «Napoli. Lezioni di Storia» orga­nizzata da Confindustria Campania e dal Corriere del Mezzogiorno all’Audi­torium della Rai. «La seconda metà del ’900, a partire dal dopoguerra, è stata epoca di pro­fonde trasformazioni che hanno muta­to il volto della città e anche i proble­mi che si trova di fronte. In pochi de­cenni si è creata una discontinuità col passato, che non è disconoscimento della sua storia, ma mutamento del contesto in cui opera, della stessa struttura interna, modificata e squas­sata ».

L’ARMONIA PERDUTA - E poi una citazione da Raffaele La Capria: «Lo scrittore ha parlato del­­l’‘‘ armonia perduta’’ con l’omologazio­ne agli standard della vita nazionale, come fenomeno negativo in quanto perdita di identità. Anche se non tutti gli standard da lui citati sono stati con­seguiti positivamente. L’armonia è un processo etico e civile connesso intrin­secamente alle donne e agli uomini che vivono in una determinata socie­tà, e in quanto tale si riflette sull’am­biente circostante. Se si perde, va ri­conquistata in termini nuovi, attraver­so un procedimento per quanto dolo­roso, costante e continuo. I processi di trasformazione sempre più rapidi non annullano le identità, che anzi fanno la differenza in temini di capaci­tà di crescita e sviluppo». Non era semplice il compito di Cra­veri, perché se, per dirla con Benedet­to Croce (che dello storico è il nonno) la storia è sempre contemporanea, quando lo è davvero, con tutti i suoi addentellati con la cronaca e la vivissi­ma attualità, allora la temperatura del discorso si fa per forza più alta.

DA GAVA A BASSOLINO - E se n’è accorto il pubblico che, mentre il professore restituiva la sua lucida ana­lisi sul recentissimo passato fino al presente, vedeva scorrere sullo scher­mo fotogrammi ancora vivi nella me­moria: dalla devastazione del dopo­guerra al terremoto dell’Ottanta. E i volti: da Silvio e Antonio Gava ad Anto­nio Bassolino. «Una storia in cui», ha detto Crave­ri, «tranne nella stagione dei sindaci che ha segnato la nascita di una nuova speranza non solo a Napoli, ma forse soprattutto qui, la costante è stata lo scarso municipalismo, come ha detto Paolo Macry prima di me». Eppure «il Comune di Napoli comunque non do­vrebbe essere più il riferimento prima­rio e, dal punto di vista istituzionale, è indispensabile ragionare in termini di area metropolitana. Nel 1990 Antonio Gava, allora ministro per gli Interni, va­rò una legge che rendeva possibile la creazione di un’autorità metropolita­na. Era una legge soprattutto per Napo­li. Non se n’è fatto nulla. Forse perché un tale progetto implica la risoluzione dei poteri comunali nella nuova istitu­zione » . Come Galasso per gli anni postunita­ri, così Craveri per quelli postbellici parla di un rigoglio culturale che fiorì dalle macerie di una devastazione enorme. «Si ricordi almeno che Napo­li aveva perduto il suo simbolo più im­portante, il monastero di santa Chia­ra».

ORTESE E GLI INTELLETTUALI - La letteratura e il teatro: «impor­tanti intellettuali che si trasferirono pe­rò a Roma o Milano e che Anna Maria Ortese, in Il mare non bagna Napoli, coglie crudelmente in questa ondiva­ga situazione psicologica in cui si fran­tumava il mito della napoletanità. La cultura manteneva un profilo alto che conserva nelle università. A Portici c’era la facoltà di Agraria di Manlio Rossi Doria e, a Napoli, Croce fondò l’Istituto di Studi storici da cui uscì una schiera di giovani come de Capra­riis, Romeo, Giordano e lo stesso Ga­lasso che si raccolsero nella metà degli anni Cinquanta intorno alla rivista Nord e Sud di Francesco Compagna. Misero a fuoco tre temi: la politica per il Mezzogiorno, la discussione per la costruzuione di una nuova democra­zia con la quale rinnovarono la cultura liberale e la conseguente polemica con i comunisti».

LAURO E LE SPARTIZIONI - Poi «l’escalation di Lauro e la creazione del sistema di po­tere che spezza il vecchio modello del notabilato clientelare». E l’ossatura è questa: «Bisogna essere potenti a Ro­ma per avere forza localmente. Il tutto senza alcun progetto di sviluppo. E se c’è un vuoto legale, questo viene occu­pato illegalmente». Fatti, catastrofi (e analisi degli stessi) con una continui­tà: «Il modello spartitorio a oltranza, al quale nessuno postula un’alternati­va basata sulla dignità della politica».

Natascia Festa

P.S.
napoli anno zero ?

Il crocifisso non è una clava

Dicembre 9, 2009 by admin · Comment
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rassegna stampa

 da La stampa del 7 dicembre 2009

di Enzo Bianchi

Prima la polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia, poi (una settimana fa) il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti. Le due tematiche sono solo apparentemente affini.
In un caso si tratta infatti della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e comunitariamente il diritto alla libertà di culto. Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno Stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto.
La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte della realtà - come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati - ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla razionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Del resto è proprio l’essere «concittadini», il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, che porta a una diversa comprensione dell’altro. Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.
In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano a una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa «realtà» che dovrebbe essere «parola e azione» per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo… Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione. Ma quando i cristiani perdono la memoria della «parola della croce», e assumono l’abito del «crociato», rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il Vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.
Va riconosciuto che la Chiesa - dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano - ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri. Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il Vangelo e il suo annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: «Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua» e dal suo annuncio: «Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri». Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.
Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.

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Dicembre 8, 2009 by admin · Comment
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